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Il supporter’s trust

Pubblicato da: Dott. Paolo Cianciotta
Pubblicato su: Altalexhttps://www.altalex.com/documents/news/2021/06/03/supporter-trust

Panorama nazionale di un fenomeno crescente che coinvolge società e associazioni sportive dilettantistiche

Sempre più spesso, anche nel nostro ordinamento domestico, le tifoserie di squadre dilettantistiche di calcio, pallavolo e pallacanestro, sull’onda di una formula già sperimentata in altri paesi europei, si affidano alla costituzione dei così detti “Supporters’ Trust”, e con tale definizione si presentano al pubblico. Invero, nel panorama proprio di quell’ampio mondo rivolto alle attività organizzative, gestionali e commerciali, legate alla fidelizzazione dei sostenitori di squadre sportive locali, si assiste alla costituzione di enti associativi che, a prescindere dalla denominazione assunta, si configurano con connotati giuridici e fiscali precisi e determinati, che meritano un approfondimento.

Infatti, la questione terminologica ha generato alcune confusioni lessicali ed incertezze normative sulle compliance di riferimento, con maggior riguardo proprio all’esplicitazione nominativa dell’istituto del “trust” nella propria denominazione di genere, senza che, in realtà, vi abbia nulla a che fare. Ma si sa: sovente, l’impiego di terminologie straniere, assunte con estrema disinvoltura nel linguaggio comune domestico, può generare facili fraintendimenti e confusioni tra i non addetti ai lavori. Tanto capita proprio nell’ambito sportivo, ove troviamo un esempio calzante di come quando sull’onda entusiastica di sperimentate forme di azionariato popolare sportivo, assai fiorente nelle esperienze d’oltralpe, ma ascritte a precisi istituti giuridici ivi storicamente accettati, si assiste alla possibilità che si generino facili equivoci, allorquando le stesse soluzioni vengano riproposte in termini casalinghi.

Licenziata sbrigativamente con il termine inglese di “supporter’s trust”, la questione nostrana è, generalmente, altra cosa dall’istituto del trust.

Nel mondo anglosassone, ovviamente, la questione è consequenziale. Il trust, come vedremo, è un istituto giuridico di origine inglese, che ben si offre allo scopo. Una nota legge inglese, per di più, ne favorisce la costituzione, con agevolazioni fiscali e contributi pubblici, a fine di sviluppo e promozione dell’attività sportiva dilettantistica: il gioco è fatto! In Italia, la questione è diversa, ad incominciare dal fatto che la soluzione per promuovere il dilettantismo sportivo è affidata a distinte e precise figure giuridiche: le Associazioni e le Società sportive Dilettantistiche. Tralasciando, per necessaria economia della trattazione, ogni peculiarità riguardante l’argomento, così vasto e composito, in questa sede, ci si chiede: a) se i supporter’s trust nazionali siano o meno ascrivibili al tipo di negozio dichiarato nella denominazione; b) se le società sportive dilettantistiche possano, in tutto, od in parte, della propria organizzazione, costituirsi in un trust “domestico” (altrimenti definito “interno”); c) e se costituite in esso, possano mantenere i requisiti necessari al godimento dei regimi fiscali ad esse concesse.

Per semplicità e sintesi espositiva, si potrebbe partire dall’individuazione dei caratteri giuridici salienti, che oggi, si possono rintracciare nelle organizzazioni di supporter’s trust nazionali. Come già accennato, qui specifichiamo senza remora che, aldilà del nome, dal richiamo, purtroppo, sempre ingiustificatamente seducente, considerato il vezzo nazionale di abusare nell’impiego di termini stranieri, le forme associative a cui facciamo riferimento, non trovano inquadramento nel “trust”, propriamente detto, bensì, in altri istituti giuridici già offerti dal nostro ordinamento nazionale. Più precisamente, per quello che si vede in massima parte, quasi sempre trattasi di una forma ben delineata di “azionariato popolare”, in virtù della quale si realizza una capillare diffusione delle quote della società, che anziché essere possedute da un numero limitato di soci, è invece detenuta dall’elevato numero di soggetti investitori, che in linea di massima, corrisponde alla pletora dei partecipanti al club della tifoseria, che sostiene moralmente la squadra sportiva.

In Europa, sebbene l’origine sia britannica, uno dei miglior esempi di azionariato diffuso, partecipativo della tifoseria alla governance della squadra sportiva, trova ospitalità nel mondo del calcio spagnolo. Ci si riferisce al F.C. Barcellona. In questo caso l’intera proprietà della squadra è detenuta dagli oltre 200.000 tifosi, in rappresentanza di altrettante quote costitutive la società sportiva. Ugualmente, vale per quanto riguarda il Real Madrid e l’Athletic Bilbao.

In Italia, nel mondo sportivo professionistico, si possono constatare due diversi approcci della questione. Un modello è quello per cui la tifoseria, si costituisce in quanto tale, ed inoltre, nello stesso ente associativo è anche stakeholder, con un interesse diretto e preponderante sul controllo della proprietà della squadra. Diversamente, succede che i tifosi, si costituiscano come soggetto diverso e distinto dalla società sportiva, detenendo, solo eventualmente, il controllo di una quota societaria, più o meno significativa.

Si consideri, per esempio, tra i club calcistici di serie A, al primo esempio di azionariato popolare di MyRoma, ente di diritto privato, che già dal maggio del 2010, ha dato vita ad un soggetto giuridico formato unicamente da tifosi della squadra omonima, che partecipa in maniera fattiva al capitale sociale del club giallorosso.

L’esempio ha avuto un seguito copioso da parte di una serie numerosissima di società sportive calcistiche professionali, di varie categorie e discipline sportive. Non a caso: la Pallacanestro Treviso.

Pertanto, da un punto di vista meramente societario, la rilevanza del supporter’s trust verso la squadra di riferimento è legata alla possibilità di possedere quote di partecipazione azionaria ad essa, in termini tali da poterne esercitare il controllo.

Tuttavia, come è dato di supporre in considerazione della tipicità del nostro ordinamento nazionale, occorre porsi alcune questioni pregiudiziali, dai connotati interdisciplinari ampi ed incerti, sia da un punto di vista civilistico, che fiscale, adottando una conciliazione di importanti aspetti concatenati tra loro, sufficiente ad esaminare con compiutezza d’analisi connotati e risvolti di non secondaria importanza, attinenti al discorso che viene a legare istituti e figure giuridiche, diversi tra loro, per natura e finalità.

In primis, pertanto, non è superfluo rivolgere l’attenzione sull’istituto del trust, così detto “domestico”, e conseguentemente, sulla diversa natura civilistica di riferimento, per la costituzione di enti sportivi e, infine, sui diversi profili amministrativi e fiscali, che ne possono conseguire per le Associazioni e le Società cc.dd. “dilettantistiche”.

Sommario

Alcune sintetiche considerazioni sull’istituto del trust
Il panorama nazionale
La questione dei trust, alla luce della disciplina degli enti dilettantistici

Alcune sintetiche considerazioni sull’istituto del trust


Il trust, quale istituto di segregazione di patrimoni distinti dalla titolarità di chi li conferisce, nasce ed evolve proprio in terra anglosassone. L’origine del trust è arcaica, come tutti sanno, ma la sua applicazione, nelle diverse sfaccettature dei rapporti giuridici ed economici del mondo moderno, si presenta come una sempre più felice ed efficiente opportunità. Pertanto, non dovrebbe stupire molto, se anche nel contesto degli enti sociali di tipo culturale o sportivo, si dovessero costituire, anche nell’ordinamento domestico, nuove forme di partecipazione attiva alla governance dell’ente, che si affidano allo strumento del trust, quale modello virtuoso atto al raggiungimento di scopi sociali, diversamente non eguagliabili dalle tradizionali forme di gestione. In Italia, l’istituto, è diventato operante, allorquando, nel 1992, sulla comprensibile pressione internazionale, il legislatore nazionale, per scongiurare il rischio che il nostro mercato potesse essere intempestivo, sul resto del mondo, ha dovuto, obtorto collo, procedere, con la legge 9 ottobre 1989, n. 364, alla ratifica della Convenzione dell’Aja del 1985, trattato multilaterale nel quale gli stati firmatari hanno proceduto al riconoscimento dell’istituto. Purtroppo, duole dover constatare che trattasi, quindi, solamente di un “riconoscimento”, del nostro legislatore, e non di una vera e propria ridefinizione della sua figura giuridica, nell’ordinamento di diritto romano. Non ci si stupisca, quindi, se ad oggi, permangono ancora gravi lacune applicative e dubbi insoluti, circa termini e modalità, con i quali si cerca di conciliare questa istituzione, fortemente ambita dal mercato, sempre attento alle performance dei prodotti d’oltralpe, con l’atavica incapacità italica di adattamento alle innovazioni.

Per tradizione, il Trust è un negozio giuridico, con cui un soggetto (denominato “disponente”, o per dirla in buon inglese, “settlor”) trasferisce beni e diritti a un altro soggetto (detto “amministratore” o “trustee”), il quale assume l’obbligo di amministrarli, nell’interesse di uno o più “beneficiari” (sotto la Union Jack, chiamati “beneficiary”), affinché si raggiunga un determinato scopo (indicato dal disponente). Acché il tutto vada secondo le regole preventivamente dettate nel contratto di trust, opera una specifica figura: il “guardiano” (“protector”). Il gioco, per farla breve, è tutto qua. Il disponente, di fatto si spoglia dei beni che vengono conferiti al trust, cessando di far parte del suo patrimonio, e nel far ciò, detta le regole del trust, e ne indica “lo scopo”. Inizialmente, nomina uno o più trustee. Eventualmente, il disponente indica anche i beneficiari (oppure le regole per individuarli), nonché uno o più protector. Dal giorno stesso, Il trustee diviene responsabile dei beni destinati, ab origine, dal disponente per la realizzazione degli obiettivi del trust, nonché di quelli successivamente acquisiti e derivati dalla sua gestione del trust, attuando, così lo scopo del trust. Il guardiano, controlla l’operato del trustee (potendolo rimuovere, ad nutum, se gli dovesse risultare inaffidabile o poco solerte). Inoltre, autorizza alcuni atti di straordinaria gestione (secondo i termini del contratto), e controlla con severità la rendicontazione sulla gestione, che il trustee deve puntualmente produrgli alle scadenze stabilite. Poi, eventualmente, secondo le regole del trust, esistono i beneficiari, che potrebbero essere titolari del diritto a percepire i redditi prodotti in trust, o a ricevere la devoluzione del patrimonio del trust (denaro o altri beni) alla sua cessazione.

Ora, senza dilungarsi troppo a lungo sulle molteplici specificità di questo istituto, ai fini di questa trattazione, è sufficiente sottolineare due particolarità. In primis, il fatto che il trust consenta di “blindare un patrimonio”, o parte di esso, essendo un presupposto di vera e propria “segregazione” dei beni conferiti dal settlor, da quelli rimasti nel suo patrimonio personale. Pertanto, non può essere attaccato da eventuali creditori del disponente, e non rientra nel regime patrimoniale e nella massa ereditaria del trustee, in caso di sua morte. Inoltre, non può nemmeno essere aggredito dai creditori degli eventuali beneficiari, fino a quando non avviene l’attribuzione da parte del trustee, e può essere solamente utilizzato per i precipui scopi contemplati nell’atto costitutivo. Un secondo utilissimo elemento di considerazione è rappresentato proprio dallo “scopo” per cui si costituisce l’istituto. Trattandosi di uno strumento estremamente duttile e versatile, risulta efficacemente idoneo a soddisfare diverse tipologie di finalità, per cui si sente parlare, a seconda delle necessità per cui si dispone, di trust familiare, trust immobiliare, trust commerciale, trust liquidatorio o di garanzia. Il concetto di scopo è così ampio, nella sua pratica esternazione, che anche nel caso non sussistano beneficiari, o il fine consista nel raggiungimento di obiettivi privi di lucro, il trust è pur sempre valido e possibile. “Charitable trust”, li definiscono oltre Manica; ed ai fini della nostra dissertazione, sono meritevoli di una giusta considerazione.

Nati con il precipuo orizzonte, volto al soccorso dei poveri e dei bisognosi, al sostegno dell’istruzione e della religione, al miglioramento della salute e la tutela della vita pubblica, allo sviluppo della comunità, delle arti, della cultura, della scienza, “dello sport”, dei diritti umani, della protezione dell’ambiente, della tutela dei soggetti deboli e degli animali, ecc. ecc., i charitable trust, per alcuni loro tratti salienti, non sono molto differenti dalle nostre “fondazioni”, da cui, comunque, si differenziano per alcuni aspetti, qui omessi, ma di non secondaria importanza.

Anche negli statuti dei “supporter’s trust” nazionali si individua lo scopo quasi sempre privo di lucro. Infatti, ideati allo scopo di coniugare gli interessi privati in un sodalizio sportivo, con gli interessi collettivi di salvaguardia delle tradizioni sportive, sociali e culturali, ispirati alla correttezza dei principi etici e morali declinati dalla squadra sportiva, essi esercitano la loro azione mediante la partecipazione diretta e democratica dei tifosi.

Pertanto, non pare possano ostare questioni ostative alla costituzione di un ente no profit, quale forma di tipo associativo che partecipa al capitale e agli organi sociali del club sportivo (società commerciale o ente non commerciale, con o senza scopo di lucro). Del resto, le basi per cui ci si risolve a questa partecipazione sociale, è giustificata dall’esigenza di garantire una diffusione dell’azionariato popolare, volta al coinvolgimento diretto dei tifosi nella gestione del club. Nello stesso tempo, l’ingresso con quota di capitale nella società sportive, assicura la vigilanza ed il controllo di una sana e corretta conduzione del club, in piena trasparenza nella gestione patrimoniale e finanziaria della società, non generando implicitamente, un vantaggio economico.

Quanto alle finalità, sicuramente non lucrative, esse si evincono dagli scopi dichiarati, volti alla realizzazione di una rappresentanza responsabile e democratica di tifosi a sostegno della squadra; la tutela, la crescita e lo sviluppo dei settori calcistici giovanili; alla promozione ed alla diffusione delle locali tradizioni storiche, culturali e sportive. Al più, ma nessuno si azzarderebbe a considerarle operazioni lucrative, può sussistere l’interesse all’offerta di benefici per i propri associati, quali, per esempio, sconti, informazioni privilegiate, tariffe speciali, in convenzione con aziende locali e nazionali. Tutto, assolutamente tollerabile, anche in un panorama come il nostro, ove quanto sopra asserito, non è stato, come vedremo, sempre pacificamente accettato.

Il panorama nazionale


Ora, infatti, nel caso di trust di scopo, i redditi sono imputati al trust, mentre in presenza di beneficiari, i redditi sono imputati “per trasparenza” (così definiti dal nostro ordinamento fiscale), ai beneficiari stessi. Un trust finalizzato alla promozione delle attività per come sopra indicate, è sicuramente un trust di scopo e, senza troppa difficoltà si potrebbe asserire che può anche essere senza scopo di lucro. Ma, a complicare ulteriormente i termini della faccenda, contribuiscono le necessarie considerazioni sulla finalità o meno di “lucro”, che giocano un peso rilevantissimo, al fine di legittimare una ASD (associazione sportiva dilettantistica) o una SSD (società sportiva dilettantistica), di cui avremo modo di dissertare.

A questo punto, appare innegabile che le attività associative esercitate da supporter’s trust, potrebbero sicuramente rientrare, pur non essendo così scontato, nelle categorie ricomprese tra quelle delle così dette “onlus”. Quest’aspetto è fondamentale per comprendere le diverse inferenze che originano dalla scelta di costituire in trust, la base patrimoniale associativa di un club sportivo. La complessa normativa nazionale sulle Onlus, senza aver introdotto nell’ordinamento un nuovo tipo di ente, ne disciplina le esistenti, per diverse categorie fiscali, alle quali possono aderire, ricorrendone i presupposti, i soggetti collettivi richiamati nel libro primo del codice civile (associazioni, fondazioni, comitati, cooperative).

Anzi, giova qui ricordare che, sebbene siano intervenute una miriade di disposizioni, disciplinanti la materia, la norma primigenia permane quella degli artt. 10 e seguenti del Decreto legislativo n. 460/1997, relativo al “riordino della disciplina tributaria degli enti non commerciali e delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale”, oggi abrogata dalla riforma del terzo settore. Tra i vari settori indicati dalla legge, era inserita proprio l’attività svolta nel settore dello “sport dilettantistico”. Ma, in ordine alle ASD e le SSD, l’approfondimento delle dinamiche di riferimento, richiede un opportuno accertamento chiarificatore sul ruolo della società sportiva, in generale.

In costanza di un ampio utilizzo degli enti dilettantistici, dalle forme giuridiche offerte dal nostro ordinamento, la finalità lucrativa delle stesse, in altri tempi, aveva già acceso un appassionato dibattito sull’utilizzo dell’ente “società”, ritenuto improprio, in considerazione di una sgradevole contraddizione, sorta tra l’obbligo di non avere scopo di lucro e il disposto per cui “con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili” (art. 2247 c.c.).

Se assunta in questi termini, la questione non consentirebbe eccezioni di sorta.

Del resto, a contraris, già la legge istitutiva del Coni, parlando di “società ed associazioni”, strumentalmente considerate quali portatori di legittimo diritto ad accedere alle offerte mutualistiche dell’Istituto per il Credito Sportivo, implicitamente rendeva, invece, ammissibile l’impiego di entrambe le forme di partecipazione collettiva.

Tuttavia, l’evolversi della disciplina della materia, ha risolto i termini in una banale contraddizione apparente. Tanto, soprattutto grazie al soccorso fornito dall’articolo 90 della Legge n. 289/2002, il quale ha elevato a rango di fonte primaria, proprio la previsione dell’art. 29 dello statuto del Coni, che già consentiva la possibilità di costituire società di capitali “con l’obbligo del reinvestimento di tutti gli utili prodotti”. In parole povere: anche le società “vere e proprie”, se si dedicano allo sport come scopo primario, possono essere prive di lucro. Legittimo pensare, che gli elevati interessi in gioco possono indurre il legislatore a facili mediazioni.

Conseguentemente, oggi, nel nostro ordinamento, le società di capitali sportive professionistiche possono costituirsi in società per azioni, ovvero, a responsabilità limitata, senza che ne sia messa in discussione la finalità esclusivamente sportiva. Non, tuttavia, nella forma della società in accomandita, per motivi che qui omettiamo. Giova, invece, ricordare che a seguito della novella del 2004 è stata aggiunta la possibilità per gli enti sportivi di costituirsi anche in forma di cooperative a responsabilità limitata di carattere sportivo: che, invero, già prima del formale riconoscimento, erano a pieno titolo insite nell’ordinamento sportivo.

Per il momento, in considerazione di quanto sopra detto, nulla sembra ostare a che la società professionistica si possa costituire in un Trust vero e proprio, nelle forme e nei termini consentiti dalla già citata legge 364. Parimenti, sembrerebbe per le organizzazioni di tifoserie che supportano la squadra. Eventualmente, sar demandato alla specificità e puntualizzazione del “contratto di trust”, il compito di definire i soggetti del trust e configurarne lo scopo. Tra le varie architetture ipotizzabili, si può ipotizzare quella per cui si conferisce al trustee, la funzione di amministratore della squadra ed al supporter’s trust, quello di protector. Ma le ipotesi sono molteplici e ci si rimette alla fantasia del lettore. Casomai, particolari considerazioni, che per brevità di trattazione, ci permettiamo solamente di accennare, ad alcune considerazioni, dai risvolti fiscali decisamente trancianti, occorrerà farle in ordine ai possibili beneficiari. Se il trust rimpiega gli utili per la promozione della squadra, rimanendo privo di beneficiari, ovviamente, si viene a realizzare lo scopo proprio dei “charitable trust”, alla stessa stregua di un fondo fiduciario di solidarietà (con le ovvie distinzioni già accennate). In caso contrario, se tra i beneficiari, si dovessero annoverare le associazioni delle tifoserie, potrebbero, con un unico soggetto collettivo, partecipare in toto, ovvero, per quota parte, alle eventuali entrate della squadra senza essere esposti a rischi di gestione della stessa. È poco, purtroppo, il tempo per ipotizzare, in questa sede, tutte le possibili variabili.

La questione dei trust, alla luce della disciplina degli enti dilettantistici


Alla data di entrata in vigore della normativa che andrà a disciplinarle, già esistevano numerose attestazioni di società di capitali, dilettantistiche, che in quanto tali, si dichiaravano specificatamente “senza scopo di lucro”. La questione che a questo punto sorge conseguenziale, allora, si compone intorno alla sussistenza di presupposti che giustifichino la possibilità di aprire lo spettro di variabili sopra accennate, anche a favore degli enti dilettantistici.

Se, con l’introduzione nel nostro ordinamento della L. 91/1981 sul professionismo sportivo, illo tempore, è stato consentito anche alle “società sportive professionistiche”, di potersi costituire in una società di capitali, “no profit,” per le SSD, si è trattato solamente di predisporre una disciplina specifica architettata in via analogica, anche per il mondo dilettantistico. Conseguentemente, con la venuta alla luce del comma 17, dell’articolo 90, della Legge n. 289 del 2002, a tema l’ordinamento delle società (di capitali) sportive dilettantistiche senza scopo di lucro, ormai universalmente definite come SSD, si è finito solamente per ratificare quanto già presente nel panorama nazionale.

Per doveroso pudore, non si intende, qui, ricordare, che lo sviluppo oramai indiscriminato di questi enti dilettantistici, sovente trova una sua giustificazione, più in motivazioni di tipo fiscale, che per quanto teleologicamente predisposto dalla legge. Ovviamente, omettiamo in questa sede. Tuttavia, non è forse un caso, che significativi argomenti disciplinanti la materia, siano contenuti proprio in una norma tributaria: art. 90, della Legge 27 dicembre 2002, n. 289, “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge Finanziaria 2003)”; ed anche se, precedentemente, se ne era parlato, ciò è avvenuto con la legge del 16 dicembre 1991, n. 398, in materia di “Disposizioni tributarie relative alle associazioni sportive dilettantistiche”. A proposito del malvezzo tutto italiano, per cui, ove il legislatore ometta, pigro e silente, interviene, gagliardo, il Fisco, sempre fomentato da quella latente tentazione a surrogarsi al soggetto costituzionalmente deputato a farlo, e come già nella disciplina del trust domestico, anche in questo ambito, stanco di attendere, alla fine, ha detto la sua, in termini pressoché vincolanti. Così, quanto non pronunciato dalla legge primaria, in materia di SSD, l’Agenzia delle Entrate, con la circolare 18/E/2018, interviene “a gamba tesa”, come si può giustamente affermare, in questo consesso. In proposito, ed in ordine alla natura giuridica degli enti dilettantistici, l’Agenzia scriveva: “In particolare, viene introdotta una nuova tipologia di società di capitali che si caratterizza per le finalità non lucrative e che si inserisce nell’ordinamento giuridico come una peculiare categoria di soggetti societari”.

Sarebbe sicuramente interessante, approfondire la questione fiscale, a riguardo. Del resto, è bene ricordare che, spesso, è proprio nel contenzioso tributario, che la giurisprudenza ha evinto, quanto era criptico desumere dal testo delle norme disciplinanti la materia, ed ha elaborato soluzioni interpretative così giovevoli, che sono state poi assunte anche in altri ambiti di riferimento.

Sarebbe proficuo, quindi, accennare alla già risolta querelle, circa i termini per cui le SSD possano rientrare nell’art. 148 T.U.I.R, ovvero, sulla sussistenza dei presupposti, di cui ai commi 3° ed 8°, al fine dell’ottenimento dei benefici fiscali. A riguardo, la lettura interpretativa, fornita dalla Suprema Corte, su casi concreti, ha teso a superare i termini civilistici formali, pretesi per la categoria, concentrandosi, più che altro, sulla concreta sussistenza di una reale “attività conforme a statuto e rivolta a terzi”, quale fondamento di un’assunta “democraticità del rapporto associativo”. In tanto, si ripone il presupposto fondamentale per il riconoscimento del beneficio fiscale. Ma non confondiamoci sul discorso, perché le distinte questioni sui requisiti per il riconoscimento dell’identità di SSD, e sui possibili regimi fiscali agevolativi, non sono necessariamente conseguenziali tra loro, e ci potrebbero portare fuori tema.

Invece, per tornare al tema della trattazione, a questo punto, e con riferimento alla relazione tra enti dilettantistici e contratto di trust, ci poniamo la domanda se e quali elementi potrebbero costituire impedimento alla costituzione di trust interni, sia per costituire l’assetto societario della squadra, che per quello degli organismi rappresentativo dei tifosi. La domanda è, ovviamente, provocatoria. In attesa che si formulino giurisprudenze di eventuale diniego, di cui attendiamo illuminante motivazione, è parere di chi scrive che, invero, non ne sussistano proprio, ipotizzando le stesse possibilità, già espresse in ordine alle squadre professionistiche. Ovvio: con qualche attenzione in più nella definizione dei rapporti di trust, nella doverosa cautela rivolta a salvaguardare la genia tipica dell’ente dilettantistico. Come già anticipato, non ci troviamo a Londra o a Glasgow.

In conclusione, e per sintesi, non ci pare azzardato sostenere che: a) la moltitudine dei “Supporter’s trust”, operanti sul nostro territorio nazionale, in genere, non appartengono alla categoria del contratto giuridico, richiamato nel nome (Trust); b) le associazioni sportive (ASD) e le società sportive dilettantistiche (SSD), come le società professionali, possono sicuramente costituirsi in trust, ed ugualmente possono farlo gli enti nati dall’aggregazione delle relative tifoserie; c) nella ricorrenza di precisi presupposti di legge, gli enti dilettantistici, anche costituite in forma cooperativa, possono certamente realizzare il loro scopo sociale attraverso un “Charitable trust”, secondo gli schemi proposti dal sistema anglosassone, ma rivestiti con gli abiti del trust domestico.

Se tutto ciò possa costituire, per il prossimo futuro, anche in Italia, un diffuso strumento, per la gestione di squadre sportive, o tifoserie organizzate in un soggetto collettivo, per sussurrarla con le delicate e carezzevoli note della famosa canzone: lo scopriremo solo vivendo.

Pubblicato da: Paolo Cianciotta
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